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IL CAMMINO delle greggi – S.Allemand

 

…passo dietro passo, sulla grande traccia millenaria di quella via che andava dai litorali dell’Adriatico fino al cuore più segreto dell’Appennino. L’avevano segnata antichissime genti nelle migrazioni stagionali o definitive, seguendo forse l’istinto loro o il cammino degli astri o i colori dell’orizzonte. Poi era diventata la strada per la transumanza degli armenti e delle greggi; una lunga strada verde: la Via della lana. ( Franco Ciampitti “Il tratturo” Napoli, 1968).

La “lunga strada verde” che descrive così poeticamente Campitti è il Tratturo, la strada che i pastori  abruzzesi percorrevano con le loro greggi due volte all’anno, in Autunno, per scendere al piano, e in primavera per tornare sui pascoli montani..

I TRATTURI E LA TRANSUMANZA

Furono i Romani a tracciare le prime vie di comunicazione,  poi destinate a diventare quegli importanti tratturi che nei secoli a venire avrebbero collegato le aree montuose abruzzesi e molisane con la pianura pugliese. Il Tratturo Aquila-Foggia segue, infatti, in parte i tracciati della via Claudia Nova e della Traiana, il tratturo  Celano-Foggia corrisponde alla via Romana o Valeria e il tratturo Castel di Sangro-Lucera corrisponde alla via Minucia . È ad Alfonso I d’Aragona ( 1447) che si deve, però, la definitiva e stabile organizzazione dei Regi Tratturi che si sarebbero conservati, così come erano stati definitivi all’epoca, fino ai primi anni ‘50 del 1900. Il più importante tra questi era il famoso “Tratturo Magno”, o Tratturo del Re, perché, oltre a mettere in comunicazione i pascoli del Gran Sasso e degli altopiani sottostanti con le pianure pugliesi, riduceva, con le sue diramazioni, il “traffico” delle greggi, convogliandolo in parte verso i pascoli della Maiella e del Morrone. I tratturi,  vere e proprie autostrade verdi, erano delle piste erbose larghe 111 metri ( 60 passi) e  di varia lunghezza. Il Tratturo magno era lungo 244 km, e collegava L’Aquila con Foggia.  Altri importanti tratturi erano Celano-Foggia di 207 Km, Castel di Sangro – Lucera di 127 Km e Pescasseroli – Candela di 211 Km. La rete tratturale, oltre ai Tratturi ( 14 ), comprendeva i  Tratturelli ( 71 ), strade erbose più piccole dei tratturi, che potevano avere una larghezza di 10-15 o 20 passi ( 18,50 m. – 27,75 m. e 37 m. rispettivamente) e i Bracci ( 13 ),di ampiezza e lunghezza inferiore ai tratturelli, che fungevano da collegamento tra tratturi e tratturelli o che permettevano l’accesso alla destinazione finale. Questo gigantesco sistema viario, così diffuso, prevedeva anche dei “riposi” (  9 ), ossia delle apposite aree create lungo i tratturi per il “riposo”, appunto, di pecore e uomini. L’intera consistenza tratturale oggi risulterebbe costituita da una rete di oltre 3.100 chilometri di strade, estese, nel complesso, circa  21.000 ettari. Nella sola Provincia di Foggia, alla fine dell’800, la rete dei  tratturi era di circa 370 chilometri. Strade simili ai tratturi esistevano anche in altre regioni del Mediterraneo. In Sicilia le “trazzere”. In Spagna  le cañadas, cordeles e veredas in Castiglia, in Aragona: cabaneras, in Catalogna: carreradas. In Francia: draille o carraires. In Romania: drumurile oierilos. Prescindendo da ricostruzioni piuttosto fantasiose, da cui risulterebbe che attraverso i tratturi il numero di ovini abruzzesi che raggiungevano la Puglia avrebbe superato nei periodi migliori anche i 5 milioni, è comunque abbastanza certo che “  nella Dogana di Foggia, nonostante le ampie oscillazioni da un anno all’altro, con punte che superarono i due milioni, non si scende generalmente al di sotto del milione di capi fino alla fine del Settecento. (Saverio Russo “ Dopo le Dogane: le transumanze peninsulari nell’Ottocento”. Pertanto i numeri della transumanza abruzzese erano di gran lunga superiori a quelli delle altre due transumanze dell’Italia centrale, quella Toscana e quella della campagna romana (Pontificia) che, messe insieme, nei periodi di maggior splendore, raggiunsero i 400.000-500.000 capi ovini transumanti. Riguardo all’Abruzzo, soltanto dopo l’abolizione della dogana ( 21 maggio 1806) i capi transumanti in Puglia si ridussero a  500-600 mila, anche se a fine Ottocento tra Abruzzo e Puglia erano ancora  528.000 i capi ovini che utilizzavano gli storici tratturi, mentre altri  320.000 capi transumavano nell’Agro romano. La transumanza verso la Puglia seguitò a diminuire progressivamente, fino a raggiungere i 200-250.000 capi transumanti nei primi anni ‘50 del millenovecento, per ridursi ancora molto di più nei decenni successivi, fino alle poche  migliaia di oggi. Nel Lazio la presenza delle greggi abruzzesi ebbe, invece, il suo massimo all’inizio del ‘900, con circa 500.000- 600.000 capi ovini transumanti.

LA MASSERIA TRANSUMANTE

La masseria transumante, composta anche da migliaia di pecore, era divisa in “morre” di circa 200 capi,  guidate ognuna da un pastore, mentre un pastoricchio le controllava in coda. Ogni morra seguiva l’altra a breve distanza, ed era accompagnata dai grandi cani bianchi. Il pastore tendeva ad aumentare l’andatura dove il pascolo era magro, mentre la rallentava dove era abbondante, per dare alle pecore l’opportunità di nutrirsi. Ogni giorno le greggi camminavano per sei o sette ore, percorrendo circa 15 Km e poi sostavano. I butteri, che precedevano il gregge, avevano il compito di preparare l’accampamento e di montare le reti per i recinti delle pecore. Le pecore, al loro arrivo, venivano munte, poi contate e rinchiuse nei recinti. Venivano accesi i fuochi e veniva fatto il cacio di passo ( il formaggio prodotto durante il cammino). Al tramonto, tutti a dormire. All’alba il cammino riprendeva. I butteri caricavano sui muli tutte le attrezzature utilizzate per la notte e ripartivano… seguiti, dopo poco, dalle greggi. Si andava avanti così, giorno dopo giorno. Durante il tragitto i pastori scambiavano il cacio di passo  con sale, pane e verdure. Le greggi dopo 16 o 17 giorni da quando avevano lasciato gli altopiani che circondano la conca aquilana, raggiungevano le locazioni dell’Ofanto e del Candelaro.  Le “locazioni” erano le terre destinate al pascolo delle greggi che i pastori, detti locati, potevano utilizzare pagando una “fida”, un canone annuo fissato in rapporto al numero delle pecore. Per ogni 100 pecore si aveva diritto ad una superficie di 24 ettari di terre non arate chiamate “poste”.

LA GERARCHIA PASTORALE

La masseria abruzzese era strutturata in maniera molto rigida. Al vertice della gerarchia c’era il proprietario degli armenti, l’armentario, che poteva possedere anche diverse migliaia di pecore. Lo schema era più o meno il seguente:                                                                 

ARMENTARIO

proprietario degli armenti

MASSARO:

uomo di fiducia e “factotum” del proprietario di armenti

BUTTERO:                                                                          CASCIARO:

addetto al trasporto dei materiali e delle                    addetto alla lavorazione del latte

attrezzature durante la transumanza

PASTORE:

addetto al controllo e alla conduzione del gregge. Ad esso veniva affidata una

“morra” di pecore formata da circa 200 capi.

PASTORICCHIO:

ragazzo addetto alla guardia del bestiame

BISCINO O GUAGLIONE:

inserviente addetto ai lavori più umili.

Un gregge di 2000 pecore ( partita) in genere comprendeva: un massaro, 10 – 12 pastori, 4-5 guagliuni 2 o 3 casciari, 2 o 3 butteri ed alcuni tosatori o carosatori.

LA  VITA  ALLA  MASSERIA

La vita alla masseria era scandita dai tempi necessarie per gestire una grande azienda pastorale.

La giornata iniziava perciò molto presto. Già alle 4.30 – 5.00 i pastori lasciavano il SACCONE (  tela cucita riempita di paglia) e raggiungevano le pecore per la prima mungitura. La mungitura andava avanti  fino alle 8.00 – 8.30. Finita la mungitura c’era la COLAZIONE, in genere  pane  e formaggio e a volte lardo di maiale. Il latte raccolto, unito a quello della sera precedente, veniva scaldato nel CACCAVO, per essere poi trasformato in formaggio,

Alle ore 9.00 i pastori lasciavano il CASONE e portavano le greggi al pascolo, sempre accompagnate dai grandi cani bianchi. Ogni pastore aveva con sé la SPARA ( un grosso fazzoletto, spesso colorato, contenente pane e companatico, quasi sempre formaggio) dove conservava il cibo per la giornata e la PIROCCA, un nodoso bastone di orniello o di frassino che serviva per incitare gli animali.

Soltanto al tramonto le pecore tornavano alla masseria sempre accompagnate dai pastori. Appena arrivate, le pecore venivano munte per la seconda volta. Nel frattempo, nel CUTTURO veniva bollita la cena:  il  pancotto, una specie di minestra fatta con il pane secco e condita con olio di oliva.

 

IL CANE CUSTODE DEL GREGGE

Nella masseria era sempre presente un numero rilevante di cani custodi o da protezione del gregge che avevano (e hanno) il compito di difendere le pecore dai predatori, in particolare dal lupo. I pastori abruzzesi, ma lo confermano anche fonti storiche, chiamavano il cane custode del gregge con diversi nomi: “pastore abruzzese”, “cane da pecora” “ cane da lupo” “ cane da massaria”, “mastino” . Prescindendo dal nome, il cane bianco difensore del gregge  è una razza antichissima e di grande valore culturale e zootecnico. È di grande taglia, è  dotato di una notevole resistenza, di coraggio, di frugalità, di grande tempra, di spirito di iniziativa e di affidabilità. I pastori per migliorare la sua efficienza nella lotta ai predatori ancora oggi utilizzano  vari sistemi, uguali a quelli di tanti secoli fa.  Per favorire la socialità, allevano i cuccioli sempre in branco, in modo che acquisiscano un notevole affiatamento, che li aiuterà, da adulti, nel loro lavoro di protezione. Per migliorare ancora l’efficienza del cane nella lotta contro il lupo, dotano i cani, in particolare i maschi adulti, di un collare di ferro irto di punte, il vreccale o roccale, che  li proteggerà  dai morsi del predatore. Un’ulteriore pratica che i pastori attuano per aumentare la capacità difensiva del cane, pratica che ultimamente si va però riducendo, è la conchectomia, ossia il taglio delle orecchie, in modo che in un eventuale scontro con il predatore, queste non costituiscano una facile e dolorosa presa per il lupo.

Il cane da protezione viene “imprintato” sulle pecore. Fin da quando apre gli occhi vede quasi esclusivamente, oltre alla madre, pecore e agnelli, e probabilmente si considera uno di loro. La vita in comune con gli ovini e le sue qualità genetiche, lo porteranno, in età adulta, non solo a rispettarli e a non molestarli, ma anche a non abbandonarli e a proteggerli, perché li considera,  sostanzialmente, la sua “famiglia”.  I cani da pecora svolgono la loro funzione di difesa, grazie al potere deterrente che gli dà la forza del numero. Per questo greggi con molte centinaia di pecore devono essere protette da un elevato numero di cani, una decina e anche di più. In un grande branco di cani, i singoli soggetti fanno affidamento, oltre che sulla loro forza, su quella del compagno e su un’assoluta solidarietà degli uni verso gli altri, indispensabile per affrontare animali pericolosi come il lupo. Ed è grazie a questo affiatamento e a questo “ cameratismo” che possono svolgere con efficacia una notevole azione di dissuasione nei confronti del predatore. Perché, è bene ricordarlo, la funzione del cane da protezione è meramente dissuasiva, in quanto molto raramente si arriva allo scontro fisico tra  cani e lupo.

PASTORI E AGRICOLTORI

I rapporti tra i pastori abruzzesi e gli agricoltori pugliesi erano spesso conflittuali, perché  i loro interessi erano contrapposti: i pastori avevano bisogno di pascoli, mentre gli agricoltori di terre da mettere a cultura. Inoltre il conflitto era alimentato dalla Dogana (la Regia Dogana della mena delle Pecore, con sede a Lucera,  un Ente istituito nel 1447 da Alfonso I di Aragona per gestire il complesso sistema della transumanza) che concedeva  “privilegi” alla pastorizia transumante. Oltre al foro particolare, infatti, “ Nel Tavoliere lo stesso pane, lo stesso vino e lo stesso sale che i pastori compravano a prezzi fortemente agevolati dovevano essere pagati a tariffa intera dalle popolazioni locali” ( F. Mercurio , Agricoltore senza casa. Il sistema del lavoro migrante nelle maremme e nel latifondo in P. Bevilacqua ( a cura di), Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, I, Spazi e paesaggi, Venezia 1989 p. 64). I locati, cioè i fittuari dei pascoli, “ franchi et immuni di tutte sorti di gabelle, datii, passi, ponti e schafe”, sono esenti anche  da diritti proibitivi a vantaggio della feudalità locale, comprano il sale, un genere indispensabile per l’allevamento e la trasformazione del latte, a prezzo ridotto. Inoltre, i locati possono portare armi, provvedersi liberamente di “ legna, paglia, acqua e falascina per fare i pagliari in qualunque luogo stiano per essere cose necessarie non meno per il proprio uso, che per i capomandri […]”, usare l’acqua di “ qualsivoglia fiume o altra acqua” atta al bagno delle pecore, “nel tempo che si devono tosare”, “ non ostante che stia detta acqua dentro i demanii di qualsiasi barone”. Inoltre i locati non possono essere “ eseguiti per qualsiasi causa civile o criminale, anche per li pagamenti fiscali, negli animali di Dogana, ( A. Gaudiani, Notizie per il buon governo della Regia Dogana della Mena delle pecore di Puglia, ac. di P. Di Cicco, Foggia 1981, pp.317  322 e 323), ossia non possono subire il pignoramento degli animali che conducono in Puglia.

Il conflitto tra il pecoraio abruzzese e l’agricoltore pugliese era “strutturale” e  molto profondo. A volte era talmente aspro che poteva sfociare in fatti di sangue; a volte, invece, era “sublimato” attraverso forme di satira popolare, come la seguente filastrocca:

Quannu lu pecurare va a la messa

Ci crede d’ purtà la morra ‘ppress!

Po’ ce’ vota ‘face ‘lu campanar:

che bella staccia ‘p fa’ lu pagliar.

Ci ficca dint’, vede l’autar:

che ‘bbella chianca p’ pesà lu sale.

( quando il pastore va a messa, pensa di portarsi anche il gregge! Poi si volta verso il campanile: che bel palo per fare il pagliaio. Poi entra in chiesa, vede l’altare: che bella pietra per pesare il sale.

Un’altra testimonianza dell’avversione dell’agricoltore , in questo caso lucano, verso il pecoraio abruzzese la troviamo in quest’altra filastrocca:

Abbrile mie curtese,

mprestame nu jurn’

de lo tu mese

pe’ fa murì li pécure

a lu ‘bbruzzese

Sull’altro fronte, quello abruzzese e pastorale, la pastorizia abruzzese  da un lato viene considerata “un  grande, pacifico, inoffensivo – e redditizio per lo Stato – gregge insidiato da numerosi e voraci lupi, reali e figurati”. “ Quel popolo sì mansueto ed umano- si legge in una memoria di fine Settecento- uguale in questa virtù alle pecore stesse” ( Ragioni per i locati della regio Dogana della Mena delle pec, s.l., n.d.  Dall’altro, nella memorialistica di fine Ottocento – quando ormai la transumanza è una pratica in declino- c’è l’affermazione del primato abruzzese sulla “Daunia vassalla”, che invierebbe ogni anno, con i pastori che risalgono le montagne verso i pascoli estivi, i suoi “umili tributi” all’ “ Abruzzo signore” ( pasta, nocciole secche, capperi, fichi, barili di semola, lana) ( E. D’Orazio. La pastorizia abruzzese cit, p. 48)  La pastorizia abruzzese avrebbe dato una parte di senso ad una “provincia – aveva scritto alcuni secoli prima Camillo Porzio – assai giovevole alle altre del regno, ma in quanto a  sé […] la più inutile che vi sia ( C. Porzio, Relazione del regno di Napoli al marchese di Mondesciar Viceré di Napoli tra il 1577 e il 1579, in Id., La congiura dei baroni del regno di Napoli contro il re Ferdinando I e gli altri scritti, ac. di E. Pontieri, Napoli, 1964, p.326.

In definitiva pastori e contadini vivevano in un conflitto permanente, in quanto costretti a vivere forzatamente gli uni accanto agli altri, in una condizione dell’esistenza, tra l’altro, molto dura. Il perenne conflitto tra l’abruzzese pastore e il pugliese agricoltore iniziò gradualmente a risolversi quando l’armentario abruzzese, una volta affrancati i canoni, diventò proprietario a pieno titolo di una parte importante delle terre del Tavoliere, cominciò a riservare una quota della superficie, prima riservata al pascolo, per la cerealicoltura e introdusse erbai seminati per l’alimentazione delle pecore.

IL RITORNO IN MONTAGNA

Dopo la Fiera di Foggia, nella prima quindicina maggio, la Masseria tornava in montagna. Prima della partenza al pastore veniva concessa una giornata di libertà, la giornata della CRUSCA,  in modo che potesse preparare i “bagagli” per il viaggio di ritorno. Come nella CALATA ( così veniva chiamata in Abruzzo la transumanza ( discesa) verso la Puglia) autunnale prima della partenza verso le montagne abruzzesi, si controllavano le pecore,  si contavano, si dividevano in MORRE e la mattina del giorno stabilito, all’alba, si lasciava la LOCAZIONE  e si riprendeva il tratturo. Ogni giorno, dopo aver camminato per diverse ore,  il  gregge si fermava in uno dei riposi sparsi lungo il tratturo. Le pecore venivano munte e rinchiuse negli STAZZI, recinti formati da pali di legno, corde e reti.

Dopo un viaggio di 15- 20 giorni la masseria arrivava nel paese di origine, dove il ritorno diventava una vera e propria festa popolare.

Il giorno dopo la MASSERIA saliva sulla montagna e finalmente il lungo e faticoso viaggio era finito.

In montagna  i pastori vivevano in capanne fatte di pietre a secco, chiamate condole, pajare o procoi, a seconda del dialetto. La vita in montagna, per i pastori, era sicuramente piena di disagi, attenuati, però, dal “privilegio” di poter tornare ogni tanto in famiglia. Ogni 15 giorni passati in montagna il pastore aveva, infatti, diritto a tre giorni di riposo a casa (la QUINDICINA).

Alcune rime dialettali abruzzesi fanno ben capire quali fossero i sentimenti contrastanti che legano  il pastore alla sua donna, ma anche al suo gregge:

Nen vòglie cchiù la pècura guardà,

pe ‘st’ucchi de mericula rimirà.

Vattenne che nen pòzze remenì,

tu vu cchiù bène alla pècura ch’a mmi.

A ti nen te ce pozza retruvà,

le pècura me dànne da campà.

 

 

 

LA FINE DELLA GRANDE INDUSTRIA ARMENTIZIA ABRUZZESE E LA SCOMPARSA DEI TRATTURI

Questa breve analisi della masseria transumante e della sua organizzazione, ci fa capire l’importanza  economica, sociale e culturale che la pastorizia aveva in Abruzzo nei secoli passati. Oggi, l’allevamento ovino in Abruzzo è praticato, invece, in maniera limitata. La distruzione della rete tratturale e la conseguente fine della transumanza a piedi, la ridotta disponibilità di pascoli, che, sia in Puglia che nell’agro romano, sono stati messi a coltura e le mutate condizioni sociali, hanno provocato la fine delle grande industria armentizia abruzzese, fortemente condizionata, inoltre, dalle caratteristiche pedoclimatiche della regione. In Abruzzo, infatti, la disponibilità di pascolo è limitata a qualche mese all’anno  e pertanto per i mesi restanti, i pastori, non avendo più a disposizione i pascoli pugliesi o romani, dovrebbero comprare il fieno e i mangimi per le pecore, con costi molto alti, e dotarsi di costose strutture per la conservazione del foraggio e per il ricovero delle pecore… e tutto questo non renderebbero remunerativa l’attività di allevamento.

Una grande perdita, legata alla fine della grande pastorizia transumante abruzzese, è stata la scomparsa dei Tratturi. I Tratturi, meravigliose vie verdi, traboccanti di natura e di memorie di quello che era l’Italia solo pochi decenni orsono: un’Italia , sicuramente più povera e più ingenua, ma più vera e solidale. Cammini, i Tratturi, che, se fossero ancora oggi presenti, avrebbero potuto avere la stessa attrattiva e lo stesso fascino dei grandi cammini di fede europei, come il Cammino di Santiago o la Via Francigena. Cammini laici, i tratturi, ma non meno ricchi di spiritualità e di capacità di suscitare emozioni profonde. Questo immenso patrimonio culturale, ambientale, storico ed economico è stato invece distrutto dall’incuria, dalla cupidigia e dalla mancanza di lungimiranza degli uomini. Oggi del grandioso sistema dei tratturi è rimasto pochissimo, se ne sono salvate soltanto piccole porzioni come quella, bellissima, del tratturo Pescasseroli-Candela, tra Bojano – Sepino, splendido sito archeologico molisano. Al posto delle incredibili vie verdi, ci sono ora grandi strade, agglomerati urbani, boschi e seminativi. Negli ultimi anni la maggiore sensibilità generale per i problemi dell’ambiente e per la riscoperta e il recupero del patrimonio e delle tradizioni  del passato, ha coinvolto anche i Tratturi. Attualmente ci sono, infatti, svariate iniziative da parte delle amministrazioni regionali, i cui territori erano attraversati dai tratturi, tese a riscoprire e ridare vita a questo sistema viario che fu così importante nella storia economica, sociale e culturale dell’Italia centro meridionale.

C’è solo da sperare che queste iniziative portino ad una autentica “rinascita” del tratturo e della memoria storica collegata alla millenaria civltà della transumanza.

Sandro ALLEMAND 

 

 

BIBLIOGRAFIA

“Il pastore, il contadino, il mercato: alle origini della transumanza” di Luciano Arcella. Rivista “SILVAE” – Rivista tecnico -scientifica del Corpo Forestale dello Stato anno I n.2  Maggio- Agosto 2005.

John A. Marino “ L’economia pastorale nel Regno di Napoli” GUIDA EDITORI

Le lunghe vie erbose( Tratturi e pastori del sud) di Italo Palasciano. Capone Editore. 1999

Saverio Russo “Tra Abruzzo e Puglia – La transumanza dopo la Dogana”- Franco Angeli Storia. 2002.

 

 

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